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Gestione forestale

La nuova sfida tecnico-culturale dell'approccio "Closer-to-nature": intervista a Renzo Motta a seguito del XIV Congresso SISEF

La nuova sfida tecnico-culturale dell'approccio "Closer-to-nature"

di Luigi Torreggiani

Il XIV Congresso di SISEF - Società Italiana di Selvicoltura ed Ecologia Forestale, si è aperto con un’interessante Keynote Lecture a cura di Jørgen Bo Larsen, esperto forestale dell’Università di Copenaghen e coordinatore del gruppo di lavoro che, attraverso una pubblicazione dell’European Forest Institute - EFI, ha ispirato le recenti Linee guida europee per una selvicoltura più vicina alla natura (Closer-to-nature).

Larsen ha mostrato una figura interessante, che riportiamo, dove sono mostrate le strategie di “segregazione” e di “integrazione” per garantire la conservazione della biodiversità e la fornitura di servizi ecosistemici forestali.

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L’idea di fondo è che una parte delle foreste europee debba essere conservata come riserva integrale, un’altra parte debba essere formata da piantagioni specializzate per la produzione di legno, ma che la parte maggioritaria delle stesse possa essere gestita secondo i principi “Closer-to-nature”, integrando quindi produzione e conservazione.

Per approfondire questo argomento abbiamo intervistato Renzo Motta, "past President" di SISEF, ordinario di selvicoltura all'Università di Torino e membro del gruppo di lavoro di Larsen che ha prodotto il documento EFI e che ha lavorato alle Linee guida europee. 

 

Larsen ha portato un messaggio davvero molto stimolante in apertura del suo ultimo Congresso da Presidente SISEF, da qui la domanda: la comunità scientifica forestale italiana è pronta a rispondere a questa enorme sfida tecnico-culturale? Oppure dovrebbe investire di più di oggi nella ricerca/sperimentazione su questo tema, e come?

In questi ultimi anni c’è stato un dibattito molto vivace a livello scientifico e culturale sui due approcci di gestione delle risorse naturali: approccio “segregativo” ed approccio “integrativo”. L’approccio segregativo prevede una separazione rigorosa tra il territorio destinato alla protezione integrale e quello dedicato alla gestione, anche intensiva. L’approccio integrativo prevede anch’esso una parte del territorio dedicato alla protezione rigorosa ma prevede una gradualità di livelli di protezione con maggiore integrazione e sovrapposizione tra produzione e protezione. Questo dibattito è stato in parte suscitato dal libro “Metà della Terra - Salvare il futuro della vita” pubblicato nel 2016 del biologo inglese Edward O. Wilson, nel quale l'autore propone che metà della superficie terrestre sia destinata a riserva naturale per preservare la biodiversità. La stessa strategia per la Biodiversità dell’UE, che propone di proteggere il 30% della superficie dell’UE, di cui il 30% in modo rigoroso, è probabilmente una conseguenza di questo dibattito.

Questa provocazione ha avuto degli effetti sicuramente positivi, ad esempio l’interessante dibattito che ne è seguito, ma, in concreto, ha una forte connotazione ideologica in quanto in un pianeta che ospita oltre 8 miliardi di persone ed in cui una parte rilevante della superfice (sicuramente oltre il 50%) non è “naturale” ma è stata ampiamente modificata dall’uomo questo obiettivo è irrealistico. Ci sono alcune frange del mondo ambientalista che però cavalcano questa “ideologia”. E’ vero che nessun sistema finito e chiuso come il nostro Pianeta può sopportare una crescita (non solo demografica) infinita, ma le proposte, con l’aiuto della scienza, devono portare a soluzioni sostenibili.

L’unico paese al mondo dove viene applicata su vasta scala una gestione delle risorse naturali e delle foreste su base “segregativa” è la Nuova Zelanda. In Nuova Zelanda le foreste naturali o seminaturali (circa il 25% del territorio) sono quasi completamente protette ed il legno viene prodotto (producono 26 milioni di metri cubi di legname all’anno e sono tra i maggiori esportatori di legno al mondo) in due milioni di ettari di piantagioni intensive prevalentemente di Pinus radiata. Questo è però possibile in Nuova Zelanda perché ci sono delle condizioni che non si trovano in Italia ed in nessun altro paese europeo:

  • popolazione di 5 milioni di abitanti su una superfice di poco inferiore a quella dell’Italia, cioè mediamente 16 abitanti per Kmq rispetto ai 196 dell’Italia (ampia disponibilità di territorio, nessuna o poca competizione tra agricoltura ed impianti forestali, suoli fertili e morfologia dolce con alta meccanizzazione dei processi produttivi);
  • foreste naturali che sono per il 99% di proprietà statale (l’1% di proprietà privata è gestita in modo sostenibile in maniera simile alle foreste europee);
  • le foreste protette sono prevalentemente foreste primarie (i primi uomini sono arrivati in Nuova Zelanda tra il nono e il dodicesimo secolo) e quindi hanno una dinamica naturale sulla quale l’uomo ha avuto un impatto trascurabile. Queste foreste possono quindi essere lasciate alla dinamica naturale, a differenza della maggior parte delle foreste europee che sono più o meno intensamente modificate dall’uomo, ospitano una diversità bio-colturale di grandissimo pregio, ma se lasciate alla dinamica naturale possono andare verso un degrado e ad una riduzione di erogazione dei servizi ecosistemici richiesti da un territorio densamente popolato

Anche in zone come l’America settentrionale (Canada e Stati Uniti), dove la densità di popolazione è più bassa di quella Europea e la percentuale di foreste primarie molto più alta, un approccio prevalentemente segregativo non è applicabile e non è applicato. La maggior parte delle foreste nordamericane è trattata a taglio raso con rinnovazione artificiale posticipata, ma in questo continente si è sviluppato anche l’approccio TRIAD (Betts et al. 2021). Questo sistema, come quello proposto dalle Linee guida europee sulla Closer-to-Nature Silviculture (European Union Commission 2023), è basato su coesistenza tra piantagioni, riserve integrali e foreste gestite con un diverso grado di intensità.

Occorre quindi distinguere tra il piano culturale-ideologico della discussione ed il piano scientifico ed applicativo. Su quest’ultimo piano negli ultimi decenni sono stati fatti dei passi in avanti enormi dalle comunità scientifiche italiana, europea e mondiale, che però non verranno mai riconosciuti da chi, per convinzione o per convenienza, ha un approccio ideologico.

Occorre distinguere tra il piano culturale-ideologico della discussione ed il piano scientifico ed applicativo

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Larsen ha parlato di dinamiche naturali e di regime dei disturbi naturali come modelli per la gestione forestale più vicina alla natura. Un passaggio del suo discorso non è rimasto indifferente alla platea, perché in apparente contrasto con le normative e il sentire comune: “il taglio raso non deve essere considerato un tabù”. Si tratta di un concetto sottolineato anche da lei durante il Congresso, in occasione della Tavola rotonda su Vaia, bostrico e i boschi alpini del futuro: ce lo può spiegare meglio?

Il mondo forestale è tradizionalmente molto conservativo ma non è immune dal farsi affascinare dalle teorie “mainstream”. Ancora oggi, a livello mondiale, la maggior parte delle foreste viene coltivata attraverso il taglio raso con rinnovazione artificiale posticipata, trattamento proposto dalla Scuola di Tharand all’inizio del diciannovesimo secolo. Nello stesso tempo, in alcuni Paesi, come l’Italia, il taglio è stato abbandonato e in questi casi si è spesso passati all’estremo opposto, considerandolo il "male assoluto".

In questi ultimi decenni l’ecologia forestale ha fatto passi da gigante e sono cambiati molti paradigmi, come quello del climax, che sono stati dominanti nei decenni precedenti (Motta 2018). Già nel 1990, all’apertura del Congresso Nazionale della Ecological Society degli Stati Uniti, W.K. Stevens aveva dichiarato che, alla luce delle nuove conoscenze, che: “I libri di testo dovranno essere riscritti e le strategie di conservazione delle risorse naturali ripensate”.

Questo processo di revisione è in itinere in altri continenti, come l’America settentrionale, ma è solo all’inizio in Europa. Se abbiamo ormai la consapevolezza che le foreste naturali sono caratterizzate da un regime di disturbo (che è la modalità principale di rinnovazione naturale delle foreste) e che l'applicazione di una selvicoltura naturalistica deve imitare le dinamiche naturali, allora dobbiamo prendere atto che in alcune foreste, ad esempio dove vento e fuoco sono il principale disturbo naturale, aperture su ampie superfici sono le modalità di utilizzazione più simili ai processi naturali.

In questi casi che cosa dobbiamo migliorare per rendere la nostra selvicoltura più vicina alla natura? Dobbiamo, come avviene in natura, rilasciare gruppi di alberi (isole di senescenza) e rilasciare necromassa perché, come ha ben definito Jerry F. Franklin, che è il "guru" della selvicoltura su basi ecologiche dell’America Settentrionale: “Nel passato la selvicoltura si è concentrata su quanto prelevare dal bosco, adesso, anche alla luce delle nuove conoscenze scientifiche, sappiamo che dobbiamo concentrarci soprattutto su quanto dobbiamo rilasciare” (Franklin et al. 2007).

Selvicoltura naturalistica non vuole quindi dire solo tagli per piede d’albero o di piccole dimensioni, ma vuole dire osservare ed imitare la natura e rilasciare le “legacies”, cioè le eredità che permettono la conservazione della biodiversità. Se la natura in una categoria forestale opera prevalentemente per piede d’albero o per piccole buche (come ad esempio nei boschi misti di abete bianco, faggio ed abete rosso) dovremmo intervenire imitando questo tipo di disturbo su piccola scala, ma se ci sono categorie forestali dove prevalgono disturbi su ampie superfici (come ad esempio nelle pinete e nelle peccete montane) dovremmo intervenire coerentemente con il principio “Closer-to-nature”. Non farlo significa ignorare le conoscenze ecologiche e scientifiche e procedere in modo ideologico.

Tutto questo dovrebbe naturalmente essere adattato alle condizioni stazionali ed alla erogazione di tutti i servizi ecosistemici richiesti in un territorio densamente popolato (protezione idrogeolocica su tutti).

Selvicoltura naturalistica non vuole dire solo tagli per piede d’albero o di piccole dimensioni, ma vuole dire osservare ed imitare la natura e rilasciare le “legacies”, cioè le eredità che permettono la conservazione della biodiversità

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Per concludere con una rapida battuta, qual'è, secondo lei, il più importante ostacolo alla diffusione dell’approccio “Closer-to-nature” in Italia?

In Italia abbiamo fatti grandi passi avanti in questi ultimi anni ma l’ostacolo principale di qualsiasi tipo di cambiamento o innovazione è sempre nella testa delle persone.

Autori:
Luigi Torreggiani, Redazione di Sherwood
Renzo Motta, Università degli Studi di Torino

Parole chiave: selvicoltura, Closer-to-nature, disturbi naturali, biodiversità

Edwards, D.P., Lindenmayer, D.B., Balmford, A., 2021. Producing wood at least cost to biodiversity: integrating Triad and sharing–sparing approaches to inform forest landscape management. Biological Reviews 96, 1301-1317.

European Union Commission, 2023. Guidelines on closer-to-nature forest management. European Union, Bruxelles.

Franklin, J.F., Mitchell, R.J., Palik, B.A., 2007. Natural Disturbance and Stand Development Principles for Ecological Forestry. Gen. Tech. Rep. NRS-19, USDA, Northern Research Station, Newtown Square, PA.

Motta, R., 2018. L'equilibrio della natura non esiste (e non è mai esistito!). Forest@ - Rivista di Selvicoltura ed Ecologia Forestale 15, 56-58.

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