Addio al “doppio vincolo” paesaggistico sugli interventi selvicolturali
Approvato l'emendamento che toglie il doppio vincolo ai boschi che ricadono in aree di interesse...
Negli scorsi giorni è uscita, sul sito di Mountain Wilderness Italia, un’interessante riflessione a firma del neopresidente Luigi Casanova. Un editoriale che ha fatto discutere e che spinge ad elaborare ulteriori considerazioni che si ritengono utili in questo dibattito.
Il titolo dell’articolo contiene già in sé un messaggio forte e inequivocabile: “Non ci sono più boscaioli ed è un problema per tutti”.
Un tema del genere, affrontato da un’associazione che, come si legge nel suo sito, “nasce con lo scopo di difendere e recuperare gli ultimi spazi incontaminati del pianeta”, rappresenta sicuramente un fatto degno di nota. Casanova infatti, nel suo articolo, difende l’operato del mestiere “nobile e faticoso” del boscaiolo, dipingendone le attività come fondamentali per la cura del bosco, degli alpeggi, del territorio.
Non è affatto un passaggio da poco da parte un’associazione ambientalista. Per anni infatti, i lavori di taglio ed esbosco tipici di questa professione sono stati visti di cattivo occhio e talvolta pesantemente criticati a prescindere da un numero crescente di persone sensibili ai temi ambientali. Persone che, lontane dalla conoscenza della selvicoltura e delle dinamiche della vita di montagna, hanno spesso puntato il dito contro ogni intervento umano in foresta, ignorando il fondamentale bisogno da parte della nostra società di quei servizi ecosistemici che si generano proprio attraverso la gestione attiva del patrimonio boschivo da parte di professionisti esperti. Non è certo il caso di Luigi Casanova, che da ex forestale conosce bene la necessità di cura e manutenzione del territorio e a cui va un plauso per aver avuto il coraggio, da presidente di un’associazione ambientalista spesso radicale, di aver sollevato questo tema così delicato e complesso.
Dell’articolo di Casanova, tuttavia, è utile approfondire alcuni passaggi, evitando di entrare nello specifico della realtà trentina, spesso evocata nel testo, ma ampliando il discorso a quella nazionale.
Innanzitutto, occorre sottolineare che i dati ufficiali a livello nazionale sembrano confermare il trend descritto: in un recente documento presentato da CGIL, si certifica che tra il 2014 e il 2020 si è registrato un calo di imprese e addetti (questi ultimi però, secondo i dati SINFOR, sarebbero risultati in aumento nel 2021). In ambito pubblico invece gli operai forestali in Italia, al 2020, risultavano poco più di 43.000 (dati Fondazione Metes), in netto calo rispetto al passato.
Rispetto al tema degli operatori forestali dipendenti da Enti pubblici - il vero soggetto dell’articolo di Casanova - è però da sottolineare come spesso, in passato, questo lavoro è stato visto come una forma di contrasto alla disoccupazione nelle aree più povere e marginali del Paese, carattere ancora presente nelle Regioni del Sud in cui è concentrato il 90% degli operai forestali pubblici italiani. Una razionalizzazione dei numeri è stata spesso necessaria per motivazioni di bilancio, per una indubbia maggiore produttività delle imprese private e per l’avvento della meccanizzazione avanzata, che ha avuto come conseguenza anche la minor necessità di manodopera. Questo non significa che sia sempre stato giusto disinvestire sulla presenza di operai forestali pubblici, ma che talvolta una razionalizzazione è apparsa condivisibile, almeno in certi contesti. In altri, al contrario, si è assistito una vera e propria volontà politica di destrutturare un settore, quello forestale, che per troppo tempo è stato percepito come marginale, anche in aree ricche di boschi e con una lunga tradizione gestionale.
A proposito di meccanizzazione, Casanova esprime un sottile rammarico sull’avvento dei macchinari complessi: “Certo hanno favorito la produttività e aumentato la sicurezza degli operatori, ma questo processo ha aumentato a dismisura i costi di gestione di tali macchinari. E spariva la formazione continua. Mentre i giovani si allontanavano dalla professione”. Se da un lato questo è in parte vero, c’è anche da dire, dall’altro, che molti giovani sono tornati al lavoro in bosco proprio grazie alle moderne macchine, che permettono un operare più sicuro, meno faticoso e che indubbiamente sono più interessanti e accattivanti agli occhi di un ragazzo o una ragazza (interessante tra l’altro il fenomeno, in crescita, delle operatrici forestali donne).
Casanova si sofferma anche sulla formazione continua, che a suo dire sarebbe ormai sparita, e contro il disinteresse diffuso delle istituzioni rispetto a questa professione. Su questo tema occorre però anche sottolineare l’enorme lavoro svolto a livello nazionale, dopo l’approvazione del TUFF (Testo Unico in materia di Foreste e Filiere Forestali) proprio sul tema della formazione e della valorizzazione della professione di operatore forestale. Grazie al Progetto For.Italy, negli ultimi anni, sono stati formati quasi 90 istruttori forestali a livello nazionale, spesso giovani, che a loro volta hanno iniziato ad insegnare, attraverso corsi codificati, il mestiere dell’operatore forestale in molte Regioni d’Italia. Insieme a questi corsi sono state messe in atto anche campagne di sensibilizzazione rivolte all’opinione pubblica proprio sul ruolo degli operatori forestali. Certo non basta, tutto può essere fatto di più e meglio, ma qualcosa si sta muovendo, più che nel recente passato.
Infine, nell’articolo di Casanova appare chiara una velata critica pregiudiziale verso le imprese boschive private, che sarebbero state preferite agli operai pubblici e poi lasciate senza controlli, garantendo loro “affari d’oro”. Su questo si potrebbe discutere a lungo, ma occorre sottolineare come in Italia, per fortuna, esistono molte regole sulla gestione dei boschi e pesanti sanzioni per chi non le rispetta. Le imprese boschive private inoltre, soprattutto se locali, sono parte integrante di quelle attività di cura e manutenzione che il Presidente di Mountain Wilderness auspica, e sono spesso le prime impegnate (si veda l’attività del CONAIBO – Coordinamento Nazionale Imprese Boschive e di altre associazioni locali) nella crescita culturale degli operatori, nella promozione di buone pratiche e nella promozione di questa professione verso i più giovani. Come sempre può esserci chi lavora male, ci mancherebbe, e in questi casi è giusto controllare e sanzionare, ma la gestione forestale svolta da privati non dovrebbe essere narrata, automaticamente, come peggiore. Anche perché le imprese lavorano spesso in base a progetti tecnici e a piani di gestione approvati proprio dagli Enti pubblici.
In conclusione, l’articolo apparso sul sito di Mountain Wilderness pone un tema serio e reale: la lenta scomparsa di una professionalità cruciale per la gestione di buona parte della montagna italiana, quella coperta da boschi. Nel finale della sua riflessione, Luigi Casanova tocca un punto centrale e pienamente condivisibile quando scrive: “Possibile che in Italia non si ritorni a investire nel suo principale capitale: la gestione dei boschi (34% della superficie complessiva del Paese) e degli alpeggi in alta quota? Ovviamente partendo dal rilancio del lavoro qualitativo dei boscaioli e di tutti gli operatori del territorio. Possibile non venga recepito il valore strategico del lavoro in bosco? Che Comuni e Regioni non comprendano quale valore rappresenti la gestione di dettaglio del territorio e la promozione delle professionalità di chi lo dovrebbe lavorare? Questo accade. Nonostante Vaia, nonostante la diffusione dei parassiti, nonostante i cambiamenti climatici in atto. Si ritiene invece che coltivare, avere cura del nostro bene primario, la foresta, sia tempo perso”.
Queste parole spingono ad un’ultima riflessione più generale, ma non meno importante. Se un’associazione ambientalista come Mountain Wilderness riconosce in modo così netto ed esplicito il valore della gestione forestale, della selvicoltura, di una figura come quella del boscaiolo, è forse venuto il tempo di una tregua tra buona parte del mondo ambientalista e quello degli attori della gestione forestale, settori della società da troppo tempo in perenne contrasto e poco inclini al dialogo costruttivo.
Negli ultimi anni sì è letto di tutto, come se il problema delle foreste italiane fosse l’attività umana in bosco e non il come essa è svolta o non svolta. Dall’altro lato, è talvolta mancata una comprensione profonda delle istanze ambientaliste e una volontà di cercare assieme punti di equilibrio, promuovendo le innovazioni e il confronto con altre professionalità. In questo contesto, la riflessione di Casanova invita, forse inconsapevolmente, a passare dal “cosa” al “come”.
Evitiamo allora di perdere tempo prezioso per critiche sterili e spesso vuote attorno alla gestione forestale in quanto tale e iniziamo a ragionare assieme, in modo approfondito, di problemi concreti a partire da valori comuni, come quello della necessaria gestione, in senso lato, di quel terzo d’Italia coperto da boschi.
Scopriremo, forse, di far parte della stessa squadra, anche se con ruoli diversi.
Si ringraziano Raffaele Cavalli (UNIPD), Luca Canzan (CIFORT) e Imerio Pellizzari (CONAIBO) per il prezioso confronto
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