Addio al “doppio vincolo” paesaggistico sugli interventi selvicolturali
Approvato l'emendamento che toglie il doppio vincolo ai boschi che ricadono in aree di interesse...
di Mauro Buonincontri, Luciano Bosso, Sonia Smeraldo, Maria Luisa Chiusano, Salvatore Pasta, Gaetano di Pasquale
Il faggio - Fagus sylvatica - è conosciuto in Italia come una specie forestale tipica della fascia montana dove attualmente è presente dagli 800 ai 2000 m s.l.m., ma non è sempre stato così. Un recente studio mostra come il faggio occupasse in passato una superficie molto più ampia rispetto a quella attuale. Lo spostamento di questa specie verso quote più elevate e la sua scomparsa dalle zone poste al di sotto dei 300 m s.l.m di quota sembra esser stata causata dalla combinazione di due diversi fattori: i cambiamenti climatici avvenuti negli ultimi 4.000 anni e le attività antropiche.
Il faggio, Fagus sylvatica, è una specie ampiamente diffusa in Europa: la sua distribuzione spazia dalla Sicilia alla Scandinavia e dalla penisola iberica ai Carpazi. In Italia le faggete coprono una superficie di circa 1 milione di ettari, il faggio rappresenta una delle specie più diffuse a livello nazionale (INFC 2015) ed è attualmente presente in popolamenti naturali in tutte le regioni dell’Italia tranne che in Sardegna.
Il faggio è una delle specie arboree più utilizzate in Europa. La sua resistenza e le eccellenti capacità elastiche rendono il suo legno un materiale ideale per la costruzione di mobili, pavimentazioni, scale, strumenti musicali, compensati, pannelli, impiallacciature e utensili da cucina. Il faggio viene inoltre utilizzato da sempre come legna da ardere e carbone per il suo elevato potere calorifico.
In Italia il faggio è presente principalmente nella fascia altimetrica compresa tra gli 800 e i 2000 m s.l.m. Tuttavia, individui isolati possono essere rinvenuti anche a quote inferiori ai 200 m s.l.m. Se si escludono le aree dove sono presenti individui sporadici, il pensiero comune sino a oggi è sempre stato che l’attuale limite inferiore delle faggete (800 m s.l.m.) fosse dovuto soltanto alle condizioni climatiche (scarse precipitazioni ed elevate temperature). In una parte della comunità scientifica nazionale, tuttavia, l’idea che in passato il faggio occupasse una fascia altitudinale ben più ampia si è fatta strada da tempo e numerose osservazioni di campo hanno suggerito che il clima non fosse l’unica causa dell’assenza del faggio a quote inferiori a 800 m s.l.m.
In un nostro recente studio appena pubblicato su un’importante rivista scientifica, "Science of The Total Environment", dal titolo “Shedding light on the effects of climate and anthropogenic pressures on the disappearance of Fagus sylvatica in the Italian lowlands: evidence from archaeo-anthracology and spatial analyses”Fagus sylvatica“Shedding light on the effects of climate and anthropogenic pressures on the disappearance of Fagus sylvatica in the Italian lowlands: evidence from archaeo-anthracology and spatial analyses” abbiamo provato a fare maggior chiarezza su questo tema.
Per realizzare questa ricerca abbiamo incrociato il censimento dei siti archeologici della penisola italiana posti a quote inferiori a 600 m s.l.m. dove sono stati recuperati resti di faggio (nella forma di legname, carboni, foglie e frutti), con applicazioni di GIS e di modellistica ecologica per ricostruire la passata distribuzione potenziale di Fagus sylvatica.
I nostri risultati hanno dimostrato che:
È bene sottolineare che questo nostro lavoro costituisce un primo tentativo di applicare un approccio innovativo e multidisciplinare per mostrare un punto di vista differente, in grado di interpretare in modo alternativo la storia delle faggete italiane di bassa quota e di quantificare l’impatto del clima e dell’azione umana su questo ecosistema forestale. Siamo ben consapevoli del fatto che ulteriori approfondimenti serviranno a chiarire ulteriormente questo interessante e delicato argomento.
L’effetto combinato del cambiamento climatico avvenuto negli ultimi 4.000 anni e dell’attività antropica sembra aver fortemente influenzato la scomparsa del faggio nei boschi italiani di bassa quota, soprattutto nelle fasce costiere, di pianura e collina. Anziché chiamare in causa un singolo fattore naturale come il clima, come è stato fatto da molti studiosi sino ad oggi, lo spostamento verso quote più alte delle faggete in Italia può essere spiegato in maniera più convincente ipotizzando l’azione sinergica dei due diversi fattori analizzati. La differenza sostanziale fra i processi naturali e quelli di origine antropica sta nei tempi di azione. In linea di massima, infatti, gli interventi operati dall’uomo sono in grado di cambiare drasticamente un paesaggio in un arco temporale decisamente più breve rispetto al clima. Nonostante la graduale “mediterraneizzazione” del clima, infatti, all’inizio del periodo considerato (4.000 anni fa) il faggio era ancora presente nei boschi dalla collina fino alla costa, dove però si sono progressivamente diffuse non solo specie arboree più termofile, ma anche specie coltivate, frutto di una crescente influenza delle attività agro-forestali svolte attorno agli insediamenti umani. Un’influenza che ha portato, nella fascia planiziale-collinare, alla diffusione di alberi di grande interesse economico, come il castagno, e di altre specie arboree da frutto o a più rapido accrescimento per la produzione legnosa.
Vale la pena di sottolineare che studi come il nostro possono fornire spunti per orientare correttamente le future politiche di gestione del patrimonio forestale italiano, contribuendo allo stesso tempo alla sua conservazione. I risultati del nostro lavoro ricevono peraltro continue conferme dalle osservazioni di campo effettuate in diversi siti dell’Italia peninsulare, dove in seguito alla cessazione della gestione attiva dei boschi si sta assistendo al progressivo ingresso (ma forse è più corretto parlare di ritorno) del faggio in popolamenti posti a quote inferiori a 800 m s.l.m. Il processo di ricolonizzazione da parte di F. sylvatica è garantito dalla presenza di individui maturi che, anche se isolati, mostrano ottime capacità di dispersione dei semi.
Questa ricerca sulle dinamiche vegetazionali del passato, che ha visto dialogare e confrontarsi archeobotanici, esperti di analisi spaziale ed ecologi forestali, fornisce spunti preziosi per meglio capire la storia e l’eredità dei nostri boschi e sviluppare nuove strategie per la loro conservazione e il loro ripristino. Alla luce dei nostri risultati, ad esempio, avrebbe senso una maggiore tutela delle piante portaseme di faggio poste alle quote più basse, prendendo in considerazione le aree individuate dai modelli come più idonee. In un’ottica di tutela di tale specie e di incremento della biodiversità sarebbe possibile mantenere una gestione forestale attiva pur tutelando la presenza sporadica del faggio a basse quote, azione auspicabile in special modo all’interno delle aree protette. È vero che l’attuale emergenza climatica, un cambiamento molto più rapido rispetto a quello avvenuto nei 4.000 anni presi in esame dallo studio, potrebbe sfavorire la ridiffusione del faggio a basse quote, a causa dell’aumento delle temperature, di siccità e ondate di calore. Tuttavia, la strada della ridiffusione tramite il rilascio di portaseme può essere comunque tentata, monitorando costantemente il comportamento della rinnovazione.
Nel nostro lavoro abbiamo mostrato come l’intreccio di più competenze può portare a risultati interessanti per comprendere meglio le complesse interazioni “pianta-clima-attività antropiche”. Un approccio di importanza strategica che può essere applicato ad altre specie e persino ad interi popolamenti, fornendo strumenti ed indirizzi idonei a limitare l’impatto antropico su ecosistemi importanti come quelli forestali.
Distribuzione del faggio in Italia nel tardo Olocene, distribuzione attuale della specie ed effetto combinato di modificazione del clima e attività antropiche.
Autori:
Mauro Buonincontri, archeobotanico presso il Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali dell’Università degli Studi di Siena
Luciano Bosso, ecologo che collabora con il Dipartimento di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Sonia Smeraldo, ecologa che collabora con il Dipartimento di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Maria Luisa Chiusano, Professoressa di Biologia Molecolare presso il Dipartimento di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Salvatore Pasta, ricercatore presso l’Istituto di Bioscienze e BioRisorse del CNR di Palermo
Gaetano di Pasquale, Professore di Tecnologia del Legno e Utilizzazioni Forestali presso il Dipartimento di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”).
Foto di copertina: Mauro Buonincontri
Foto interne: Luciano Bosso
Il lavoro scientifico da cui è tratto l'articolo è disponibile a questo link.
Per maggiori informazioni è possibile contattare Luciano Bosso, coautore dell'articolo: luciano.bosso@unina.it
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